fbpx

Spazio ai giovani: all’Everest la prima Residenza Trampolino

Mattia Michele De Rinaldis, Isabella Rizzitello, Sebastiano Bronzato e Marko Bukaqeja si sono conosciuti alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi. Mattia iscritto al corso di Autore Teatrale mentre Isabella, Sebastiano e Marko al corso di Recitazione. Alla fine del triennio hanno iniziato a lavorare insieme a “Let’s Bury”, progetto (ideato da Mattia Michele De Rinaldis e Chiara Callegari) che ha terminato nei giorni scorsi la prima parte di residenza all’Everest. Selezionato nell’ambito delle Residenze Trampolino di IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia, il percorso che intende sostenere gli ex-allievi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, “Let’s Bury” è un lavoro che si interroga sul rapporto che abbiamo con la morte. 

Ecco quello che ci hanno raccontato sul loro progetto. 

 

Chi siete? Presentatevi brevemente

Mattia: siamo un gruppo di ex allievi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi. Io, Marko e Sebastiano eravamo nello stesso anno, mentre Isabella è entrata a scuola l’anno successivo. Abbiamo condiviso insieme una serie di percorsi e tutti ci siamo ritrovati a mostrare un forte interesse per “Let’s Bury”, il progetto che stiamo sviluppando in questo periodo nella residenza creativa qui all’Everest – Spazio alla Cultura. 

Isabella: in questo momento non vogliamo ancora definirci, preferiamo lasciare un po’ tutte le strade aperte. Abbiamo deciso di unirci per realizzare questo progetto ma ancora non sappiamo se questa collaborazione potrà diventare qualcosa di più formale. Di sicuro però ci saranno altre occasioni per lavorare insieme. 

 

Come vi siete avvicinati al teatro?

Marko: l’esperienza più importante è stata sicuramente quella della Paolo Grassi, anche se già ai tempi del liceo e delle scuole medie frequentavo un corso di teatro. Però non avevo mai visto questa possibilità come qualcosa su cui investire, anche per il contesto culturale in cui sono cresciuto e per le difficoltà che comporta intraprendere un percorso artistico. 

Sebastiano: prima dell’accademia anche io ho fatto dei corsi di teatro a Verona, poi al termine del liceo mi sono iscritto alla Paolo Grassi. Il percorso formativo è più o meno simile per tutti noi, nel senso che la cosa che più ci accomuna e la cosa più intensa che abbiamo vissuto è l’accademia. 

 

Quanto è difficile per un giovane artista emergere nel panorama teatrale?

Sebastiano: mi ricollego anche al discorso che aveva fatto Marko prima, quando parlava di investimento, perché sono tante le volte in cui ti chiedi se ha senso investire in una cosa così difficile. Diciamo che all’inizio l’accademia un po’ ti protegge perché sei concentrato sul tuo percorso di crescita. Le lezioni, le prove e gli spettacoli non ti permettono di pensare ad altro. All’inizio non avverti il senso di precarietà ma una volta che finisci gli studi teatrali ti ritrovi un mare aperto davanti a te. Si parla spesso di opportunità per i giovani, di provini, ma in realtà non sono tantissime le possibilità per poter emergere. Per questo, diventa ancora più importante avere la possibilità di sviluppare il nostro progetto durante la residenza qui all’Everest. 

Mattia: secondo me il problema più grande è la mancanza di atti di fiducia. Le possibilità per emergere sono tutte collegate a bandi in cui, per partecipare, devi presentare uno spettacolo intero o una parte dello spettacolo. Ma portare in scena anche soli 20 minuti di lavoro, richiede un investimento importante, sia economico che di energie. E allora ci sarebbe bisogno davvero di atti di fiducia, come è stato per noi con Industria Scenica che ha selezionato “Let’s Bury” partendo dal solo progetto scritto, da un’idea. Dal mio punto di vista, questo significa fidarsi di un giovane.

 

Parlateci del vostro progetto 

Mattia: “Let’s Bury” parla del rapporto che abbiamo con la morte, un rapporto che riguarda in modo diretto anche la vita. In particolare, abbiamo scelto di focalizzarci sul rito funebre. Le prime forme di civilizzazione che hanno differenziato l’uomo dalle scimmie sono stati proprio i rituali destinati ai defunti. Questi riti facevano parte di un autentico culto dei morti, un’autenticità che nel corso dei secoli non si è mai persa. Noi ci siamo focalizzati sull’oggi, su quello che è diventato il rito funebre, il legame con i defunti nella società capitalistica. Una delle prime cose su cui ci siamo scontrati è stata la morte inserita in un sistema economico, burocratico, di marketing, in una società che sta vivendo una perdita importante di valori. Quindi ci siamo ritrovati con la necessità di mettere in scena agenti di pompe funebri che provano a vendere in tutti i modi bare o pacchetti funebri a chi ha appena subito un lutto, agenti di polizia che non riescono a dare un nome a un corpo senza vita oppure preti che non conoscono il defunto, non conoscono i parenti e non sanno come rendere autentica l’omelia che stanno recitando.

Per lo spettacolo, siamo partiti da questa figura centrale che è una zia defunta che nessuno conosce, circondata da una serie di persone che provano a vivere questo lutto in modo totalmente diverso. 

 

Da cosa è partita la vostra ricerca? 

Marko: abbiamo deciso di lavorare proprio sul rito, che sia esso un rito teatrale, commerciale o burocratico. Da qui abbiamo provato a cercare un nesso comune con il rito funebre. Questo tipo di ricerca è stato possibile anche grazie alla struttura a quadri data da Mattia al lavoro. Tutto il testo della struttura parte da due presupposti, la zia che nessuno sa chi sia, che cambia ad ogni quadro, diventando sempre una persona diversa, e la domanda “di cosa abbiamo bisogno adesso?”, che funge un po’ da motore teatrale e fa attivare tutti i personaggi. 

 

Cosa vi aspettate da questa residenza?

Isabella: in questo momento quello che vorremmo trovare dalla residenza è una dimensione reale che abbiamo un po’ perso ultimamente. Stare insieme e lavorare insieme su un progetto, nello stesso posto. Ritrovare la possibilità di continuare la nostra ricerca in presenza, con un arricchimento dovuto anche a tutto quello che stiamo vivendo, con una consapevolezza maggiore di quello di cui abbiamo bisogno.  

 

La campagna di comunicazione partecipata di Industria Scenica “Se vuoi, puoi!” ci invita a riflettere sull’importanza dei piccoli gesti e ad accogliere la metamorfosi come esperienza di crescita e innovazione. Voi, come artisti, cosa vorreste cambiare?

Sebastiano: io vorrei un cambiamento di ascolto tra le persone. 

Marko: vorrei fosse dato un valore diverso al tempo, anche parlando di noi artisti. Vorrei che il nostro tempo venisse riconosciuto, regolamentato. C’è una frase nel testo di Mattia che dice il prete: “non c’è il tempo”. Questa per me è una frase molto importante perché quando il tempo è povero non s’impara ad amare neanche il proprio lavoro. 

Mattia: è davvero difficile rispondere senza magari cadere nel retorico. Penso però che il “se vuoi, puoi” vada davvero applicato alle piccole cose, ai piccoli gesti quotidiani. Con maggiore consapevolezza di chi siamo, di quello che facciamo, di chi abbiamo intorno, possiamo veramente andare a riconoscere e a dare il giusto valore alle piccole cose. Partire da noi per riconoscere gli altri.

Isabella: se vuoi, puoi cambiare idea. Cambiare idea è una cosa molto difficile perché è strettamente legato alla nostra identità, alle nostre convinzioni. A me piacerebbe, anche con il mio lavoro nel mondo dell’arte, aprire la possibilità negli altri di vedere le cose in modo diverso, di far capire che si può anche cambiare idea. 

 

 

Torna su