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Il teatro come strumento di esplorazione di sé e degli altri: intervista alla Compagnia Quaranta Minuti

Ci raccontate chi siete e cosa fate?
Siamo Riccardo Paltenghi e Costantino Orlando e siamo uniti, oltreché da una bella amicizia, dalla passione per il teatro di figura.
Abbiamo cominciato a lavorare insieme nel 2020 a partire dal corso di alta formazione Animateria. In quel contesto ricchissimo di stimoli le nostre esperienze artistiche e lavorative precedenti, molto diverse tra loro, hanno trovato un linguaggio comune nel quale convergere e ci siamo scoperti complementari. Ci piace pensare il teatro come uno strumento di esplorazione di sé e degli altri e in particolare del teatro di figura amiamo la capacità di toccare temi molto grandi e complessi con quella che, a lavoro compiuto, sembra una profonda semplicità.

 

Com’è nato il vostro progetto? In che cosa consiste?
Fernweh o la fame del pane altrui nasce a novembre 2020 durante la seconda ondata che chiudeva di nuovo i confini delle regioni italiane. Cercavamo una chiave per aprirci ad altre storie, ad altre persone diverse da noi anche per età, cultura e provenienza. L’abbiamo trovata nel pane, questo elemento quotidiano, quasi inosservato quanto onnipresente, più antico della storia ma allo stesso tempo custodito nella memoria di ognuno accanto ai ricordi più personali. Erano questi ricordi, queste storie che volevamo raggiungere. Abbiamo quindi organizzato una serie di interviste che partivano dal sensoriale, dai ricordi concreti di profumi, suoni e sensazioni e scoprivano negli intervistati un modo nuovo di raccontarsi. Nel frattempo affinavamo gli strumenti che ci avrebbero permesso di tradurre in scena questo materiale così ricco e magmatico, coinvolgendo Marco Cuccaro per le musiche e Arianna Mattietti inizialmente per la parte scenografica, collaborazione poi sfociata in un ruolo attivo in scena. Il gruppo così formato prende il nome di Compagnia Quaranta Minuti e il primo studio dello spettacolo arriva alle semifinali del Premio Scenario a giugno 2021. A questo punto abbiamo in scena un performer/danzatore e un’animatrice di burattini sperimentali che muovendosi su una colonna sonora di musica elettronica e estratti audio delle interviste raccontano la storia di Max, un ragazzo perduto tra una città sconosciuta e un lavoro alienante che cerca di ricordare il sapore del pane di casa sua ascoltando i racconti del pane altrui.

 

Come si è trasformato il vostro progetto durante la residenza?
Grazie a Industria Scenica abbiamo potuto approfondire il nostro lavoro in entrambe le sue direzioni, sia quella introspettiva che quella del rapporto con gli altri. Per introspezione si intende la consapevolezza di chi si è sulla scena, come personaggio e in un certo senso anche come persona, quando si sceglie di mostrare storie di persone molto diverse da noi. Se il nostro modo di mettere in scena gli altri erano i burattini, non avevamo nessuna intenzione di nascondere il burattinaio, di sfruttare la posizione privilegiata di una voce fuori campo. Abbiamo capito che non potevamo rappresentare gli altri senza prima aver presentato noi stessi allo sguardo dello spettatore. Da questa esigenza nasce la figura semi-autobiografica di Max, ragazzo italiano emigrato a Berlino, così sostanzialmente perduto da cercare se stesso in chiunque incontri.
In un primo momento avevamo pensato una struttura drammaturgicamente aperta, in cui il nostro protagonista fungeva, con la sua ricerca, semplicemente da filo rosso tra le testimonianze raccolte, ma nel corso della residenza ci siamo accorti che l’utilizzo stesso delle figure, indispensabili al nostro modo di visualizzare le storie, introduceva senza scampo il tema spinoso della finzione. Allora ecco che Max perde il suo pseudonimo, le scatole di cartone di cui si circonda diventano il ricettacolo di tutte le bugie che racconta quando telefona a casa, i burattini che rappresentavano i suoi incontri con i vicini si trasformano in figure di carta che parlano con voci da caricatura, persino il pane che dice di impastare è soltanto un sacchetto accartocciato. Lo vediamo arrivare in fondo alla sua solitudine, ai suoi sbagli, alla sua testardaggine senza uscita. Ed è solo a questo punto che, esaurita ogni scusa, lo vediamo tirar fuori la verità. Un vero pezzo di pasta di pane che non sa maneggiare, le voci non più contraffatte dei suoi vicini, dei suoi simili. Dei veri pezzi di pane da guardare, toccare, assaggiare, esplorare in scena, dopo aver condiviso col pubblico il percorso che porta a vederli come incontri preziosi.
Questi incontri preziosi diventano talmente indispensabili al progetto che si rende necessario, accanto allo spettacolo, un momento di laboratorio/incontro con il pubblico. Grazie all’appoggio e all’iniziativa dello staff di Industria Scenica siamo riusciti a creare un prototipo di questo laboratorio, in cui il gesto dell’impastare il proprio pane porta alla condivisione della propria narrazione. Il nostro obiettivo è quello di mettere in scena i pani che vengono effettivamente realizzati dai partecipanti al laboratorio appena precedente allo spettacolo e di far sentire le loro voci, non più come storie raccolte da lontano e portate in scena legate da un simbolico filo rosso, ma come presenze ancora calde, appena sfornate da un lavoro fatto insieme, che arrivano infine sulla scena per salvarci dalla nostra ostinata solitudine.

 

Ci raccontate tre momenti significativi della residenza all’Everest – Spazio alla Cultura?
Beh, il laboratorio di panificazione è stato un gran momento. All’inizio sembrava non dovesse arrivare quasi nessuno, poi è arrivata così tanta gente che abbiamo dovuto spostarci all’ultimo nella sala più grande e il tempo di quella mattinata è letteralmente volato via. Anche i ragazzi del corso di teatro con l’insegnante Mabel Lopez ci hanno detto delle cose molto belle, che ci hanno fatto sentire rassicurati sul fatto che il pane è un argomento interessante e inaspettato intorno al quale ritrovarsi. E poi siamo stati conquistati dall’esperienza della balera del sabato sera! Anche se forse sarebbe più onesto dire che siamo stati proprio adottati, dopo qualche diffidenza iniziale, dai ballerini veterani che ci hanno visto volenterosi ma effettivamente un po’ in difficoltà sul liscio. In generale ci siamo sentiti ascoltati e ben accolti, il nostro lavoro è potuto crescere perché l’Everest gli ha dato spazio e da Industria Scenica ha ricevuto supporto, attenzione e rimandi preziosi. Viene una gran voglia di tornarci presto, con lo spettacolo pronto o con nuovi progetti in cerca di un bell’inizio.

 

La residenza della Compagnia Quaranta Minuti è inserita nel programma 2021 del Centro di Residenza Lombardo “IntercettAzioni” sostenuto dal Ministero della Cultura, Regione Lombardia e Fondazione Cariplo.

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