fbpx

Teatro Sherpa, intervista a Eugenio Allegri: “Io, Novecento e l’incontro con Baricco”.

Venerdì 13 febbraio sarà il primo protagonista di Sherpa – Teatro D’Altitudine, la stagione teatrale 2015 del Circolo Everest.
Il suo Novecento, spettacolo scritto da Alessandro Baricco perché fosse interpretato proprio da lui, Eugenio Allegri, qualche anno fa ha raggiunto la maggiore età.
Vent’anni di Novecento nei teatri, 500 repliche per uno spettacolo che é Eugenio Allegri. O forse Eugenio Allegri è Novecento?
Riportiamo di seguito l’intervista con l’attore torinese: l’incontro con il Teatro, l’impegno a livello locale e i due incontri che hanno segnato la sua vita: la musica e…
Buona lettura! [Info spettacolo: Circolo Everest via Sant’Anna 4, Vimodrone. 13 febbraio ore 21.00. Per info e prenotazioni: 02 95299528 / 328 1216917. Evento Facebook]

Novecento è nei Teatri dal ’94.
Cosa ha voluto dire per lei essere l’interprete per così tanto tempo di uno spettacolo, portarlo nei teatri e farlo suo, tanto da farle affermare “Novecento sono io”?
Novecento sono io perché è stato scritto per me e per Gabriele Vacis. Poi col tempo lo spettacolo è diventato adulto, adesso è maggiorenne. Ha compito 20 anni nel 2014, è autorizzato ad avere una sorta di “carta d’identità”.
Una volta, a una provocazione giornalistica in cui mi fu chiesto “ma lei è Novecento?”, risposi: “Sì, sono io!”. E’ un’affermazione che parte da una riflessione sul lavoro fatto in questi anni: per il numero di repliche realizzate,  per questi 20 anni in cui ho attraversato parte della mia vita professionale e per il fatto che uno spettacolo teatrale implica sempre un coinvolgimento personale.
Come mi è già capitato di dire, non sono l’unico ma… io sono Novecento. Se qualcun altro può dire lo stesso tanto bene. Ma penso di poter essere riconosciuto dal pubblico e dalla critica come colui che ha portato in giro Novecento.

Un’altra maschera insomma?
Sì, in effetti col tempo è diventato quella cosa lì.
Io sono stato conosciuto dal più grande pubblico teatrale dopo Novecento, è inutile negarlo.

E come è nato l’incontro con Alessandro Baricco e Gabriele Vacis? Tre torinesi che hanno creato uno spettacolo cult.
Sono quelle combinazioni un po’ strane, in cui le persone si trovano nel posto giusto al momento giusto.
Baricco in realtà lo conoscevo già da una decina di anni e, a parte qualche piccola collaborazione cinematografica fatta a Torino, non ci eravamo mai incontrati sul teatro. Eravamo tutti e tre torinesi ma in quel periodo io ero nomade: ecco perché dopo averlo conosciuto nel 1985 ci siamo un po’ persi, io sono andato per altri lidi. Quando sono tornato a Torino lui nel frattempo aveva incontrato Gabriele Vacis al Teatro Settimo. E il caso vuole che io, una volta completata la mia esperienza con Leo De Berardinis, approdo al Teatro Settimo. E quindi ci ri-incontraimo in quell’ambito, ognuno con la propria esperienza: io con il mio lavoro di teatro, Baricco era già lo scrittore Baricco e Vacis con il suo lavoro al Teatro Settimo che andava avanti da anni.

Dopo due spettacoli corali con il gruppo del Teatro Settimo sentivo l’esigenza di fare un monologo, mi sentivo pronto. Ne parlo con Gabriele e tutti e due ci diciamo “parliamone con Sandro”.
Ed è andata così. E’ stato un inizio incoraggiante, oltre al fatto che una volta arrivata la prima parte del copione era.. una cosa molto bella.

Cosa si deve aspettare il pubblico di Vimodrone? Venerdì sul palco vedremo di più Novecento o Eugenio Allegri?
I due elementi coincidono. Il testo è stato scritto per essere fatto sulla scena. Come è scritto nel frontespizio del libro, che è uscito dopo il debutto dello spettacolo teatrale, è un testo nato per il Teatro, non per il cinema o per la lettura.
Lo spettacolo che va in scena è il testo che di volta in volta con Baricco abbiamo corretto, riadattato, perché l’allestimento teatrale rendeva superflui alcuni passaggi che erano già risolte con la scenografia, con le luci o con le musiche.
Anche se poi quello che viene pubblicato nel libro è il testo originale di Baricco.  Il pubblico di Vimdorone vedrà lo spettacolo originale, che andò in scena ad Asti nel novembre del 1994. Con il mio costume, che nel frattempo è stato cambiato certo.. le mie misure non sono ahimè quelle di 20 anni fa.

Non era nemmeno scontato che sarebbe diventato libro: Baricco l’ha pubblicato dopo aver raggiunto il suo successo personale, ma quando consegnò a me e a Vacis il copione, non era ancora così famoso, non era il Baricco che conosciamo adesso.
Diciamo che le cose hanno viaggiato parallelamente: in quel 1994 Baricco va due volte in televisione in due trasmissioni che lo rendono famoso. Certo, era già sulla strada del successo: scriveva per il Corriere della Sera, aveva ricevuto un importante premio letterario per Oceanomare, ma non era ancora passato in tv, il pubblico non lo conosceva visivamente. E poi è arrivato Novecento.

E cosa è cambiato dal suo primo Novecento?
E’ cambiato il mio approccio, o meglio: io faccio lo stesso spettacolo, che non è mai lo stesso spettacolo. Primo, perché il pubblico è sempre diverso e, essendo un monologo, si lavora insieme al pubblico; secondo, perché è cambiata la mia vita, quello che ero 20 anni fa non posso esserlo più. Il mio modo di porgere Novecento è cambiato con me.
In questi venti anni ho fatto molti altri spettacoli, alcuni monologhi, e tutto questo mi ha fatto – si presume – evolvere come attore. E questa presunta evoluzione ovviamente ha riguardato i diversi appuntamenti in cui mi sono misurato con Novecento.
Diciamo che il Novecento che il pubblico vedrà è uno degli appuntamenti in cui la nave torna ad approdare in porto. A Novecento io ci torno sempre dopo esperienze diverse che di volta in volta rimodellano la modalità stessa di porgere lo spettacolo al pubblico.

Parliamo di Eugenio Allegri attore. Cosa ha significato la scoperta del teatro nella sua vita?
In realtà non è stata una scoperta, è stata una consapevolezza acquisita nel tempo. Ho cominciato a muovere i primi passi sul palcoscenico e poi, poco alla volta, mi sono reso conto che era uno straordinario modo per comunicare, per questo linguaggio sia esteticamente ma anche politicamente importante nel rapporto col pubblico.
Un linguaggio di comunicazione, di scambio, un luogo dove costruire una forma anche etica, non solo estetica, di relazione tra le parti.
Non è stata quindi una folgorazione, non sono stato “fulminato” dal teatro, anche se da ragazzo avevo fatto le mie prime esperienze scolastiche con la recitazione.
Cè stata un’acquisizione di consapevolezza grazie anche all’incontro con gli attori, i teatranti… Ho guardato molto gli altri prima di capire che poteva essere il mio lavoro.
Il Teatro è poi una grande forma di espressione della persona. Gli attori sono fortunati: hanno una grande consapevolezza degli strumenti che hanno a disposizione perché acquisiscono una grande capacità espressiva e quindi favoriscono la ricchezza della comunicazione.

Nei suoi trent’anni di carriera ha calcato spesso le scene straniere, lo stesso Novecento è andato anche all’estero.
Noi siamo un Circolo che lavora per rafforzare il welfare culturale del territorio. Lei che rapporto ha con la sua comunità d’origine, con Torino?  Con il suo lavoro è stato impegnato anche a livello locale?
Sì, sempre. Non ho mai smesso di riportare nel mio territorio quello che acquisivo da altre parti. E devo dire, a volte non con la presupposta restituzione di interesse da parte del territorio.
Non so ancora se ho fatto bene o ho fatto male, c’è ancora un forte punto interrogativo su questo. Il riconoscimento popolare c’è: so di avere un pubblico torinese che mi segue, che è affezionato, che mi riconosce come “figlio di questa terra”. Ma sono le istituzioni, i poteri “forti” che controllano tutta l’attività culturale di una città o di una regione, che fanno molta fatica a riconoscere questo valore, cioè il rapporto con il territorio.
Si preferisce sostenere eventi sporadici, nomi famosi, personaggi mediaticamente forti. E allora capita che si plaude a quelli che sono capaci di stare sia sul piano territoriale che su quello nazionale riportando “in casa” ciò che fanno da altre parti, magari con riconoscimenti più gratificanti. E tutti a dire “Ah che belli, che bravi!”. Ma poi… Non vivo ahimè in un territorio che tende a tenere in casa i propri figli.
Questo è un po’ il difetto di Torino, città di gran laboratorio ma che poi a un certo punto, se vuoi ottenere dei risultati, devi lasciare. E’ una città che soffre un po’ di provincialismo, ecco. A differenza di Milano e della Lombardia che invece hanno da sempre una struttura culturale che tende a valorizzare il proprio patrimonio. Ahimè, mi è toccata Torino (ride).
Tendenzialmente “l’aristocratica e sabauda Torino” non ha una virtù democratica dal punto di vista sociale, economico e culturale che invece ho sempre riscontrato in Lombardia e a Milano in particolare.

La aspettiamo a Milano allora! Anzi, a Vimodrone. Noi siamo in provincia.
Io frequento tanto la provincia italiana, non solo intorno alle grandi città. La provincia del centro Italia ad esempio, soprattutto nelle Marche, in Umbria. La provincia milanese e lombarda in questi anni l’ho battuta tutta, regolarmente: Milano, Brescia, da qualche anno manca Bergamo per alcune scelte politiche, ma speriamo che le cose si ristabiliscano presto.
Senza dimenticare la stessa città di Milano: Novecento ha celebrato i suoi vent’anni con due repliche al Piccolo. E il pubblico milanese è… mi permetto di dire “un’altra cosa”!

Può spiegarci meglio?
Nella provincia milanese si ha consapevolezza di un’appartenenza a una comunità cosmopolita di grande tradizione culturale, fortemente democratica e orizzontale. Noi piemontesi invece abbiamo questa virtù “democratica” e ce la trasciniamo dietro. Anche io che sono alto meno di 1.70 e vi guardo dall’alto verso il basso!
Questo provincialismo ci accomoda anche tanto bene eh! Siamo i cosiddetti bugianei: noi non ci muoviamo. Ed è veramente così.

Ci sono stati incontri nella sua carriera professionale, fuori dal teatro, che l’hanno formata?
Certamente sì. Un incontro artistico e un incontro personale/sociale: il primo con la musica, il secondo con l’impegno politico. Musica e politica sono i due punti di riferimento con i quali ho misurato più spesso il mio alfabeto teatrale.
Da ragazzo ho studiato musica, ma gli incontri con i musicisti hanno cambiato le cose: dal più famoso Stefano Bollani, alla Banda Osiris, musicisti anomali ma talentuosissimi anche come attori. E poi Ramberto Ciammarughi, pianista e compositore assisano con cui abbiamo fatto un tentativo di lauda per frate Francesco con delle virate sul jazz. Posso citare Daniele di Bonaventura, bandoneonista con cui faccio un reading su alcuni testi sudamericani. E poi tutta l’esperienza del teatro Settimo, quella con De Berardinis così come il lavoro sulla commedia dell’arte: esperienze in cui l’elemento musicale è sempre stato forte.

Anche l’incontro con la politica è avvenuto da ragazzo: prima il movimento studentesco della provincia torinese, poi sono stato iscritto al partito comunista e a livello comunale sono stato anche consigliere. Due anni fa ho fatto uno spettacolo su Enrico Berlinguer, I pensieri lunghi. Non l’ho scritto io, l’ho solo interpretato, ma con molta conoscenza dei fatti.
Ho fatto politica attiva, negli anni ’70 eravamo tutti convinti che ce l’avremmo fatta. Non è andata così, ma eravamo tutti pronti a scommettere che le cose sarebbero andate diversamente.

E oggi verso cosa è diretto il suo impegno? Progetti per il futuro?
Sempre nel Teatro. Con l’esperienza che ho acquisito in questi anni mi capita di lavorare anche nell’ ideazione di progetti teatrali a livello territoriale.
E poi continua l’interesse nei confronti della scuola con la presentazione di lezioni-spettacolo; tengo laboratori con i giovani attori che stanno crescendo nelle scuole di teatro. Continua il lavoro con la commedia dell’arte, che ho sempre fatto, e laboratori legati alla lettura poetica e narrativa,  un altro aspetto che ho approfondito nella mia carriera.

 

 

Torna su