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Incontro con Silvio Castiglioni: “Nino Pedretti? Una rivelazione per tutti, una delle mie follie teatrali.”

Tra i fondatori del Teatro di Ventura e del CRT di Milano, attore di riferimento del Teatro Sociale e direttore per diversi anni del Festival dei Teatri di Santarcangelo, Silvio Castiglioni è soprattutto uno sperimentatore che – dopo 30 anni da teatrante – ama ancora fare delle “follie”. Come iniziare un lavoro sulla Passione di Cristo dal punto di vista della Madonna e studiare il rapporto tra Ingmar Bergman e la moglie per uno spettacolo a due. Con l’entusiasmo di un ragazzo che vive di curiosità e del bisogno innato di alimentare – non solo soddisfare – una sconfinata sete di bellezza.

Oggi venerdì 8 maggio Silvio Castiglioni chiude la rassegna “8000 metri di Teatro” della stagione Sherpa del Cicolo Everest con “L’uomo è un animale feroce”, tratto dai monologhi del poeta romagnolo Nino Pedretti. Uno spettacolo dove si ride a denti stretti e si riflette sulle ossessioni dell’uomo medio. [a questo link l’evento Facebook)

Come nasce l’idea di un progetto su Nino Pedretti?

Nino è un poeta, più famoso come uno dei tre poeti di Santarcangelo, che tutti i romagnoli conoscono perché scrivono in dialetto romagnolo: parliamo di Tonino Guerra, Lello Baldini e di Nino Pedretti. Il difetto di Nino è che muore a 52 anni nell’82 per una brutta malattia. Loro tre non sono gli unici intellettuali di Santarcangelo. Anzi, all’epoca c’era un gruppo di intellettuali molto attivi e vivaci, personaggi indisciplinati, che negli anni ’70-’80 avevano costituito un gruppo che si chiamava il Circolo del Giudizio. E’ dentro questo gruppo di persone che nasce il Festival dei Teatri di Santarcangelo. Si racconta che fu lo stesso Pedretti ad andare a battere i pugni sulla scrivania del sindaco dicendo “questa cosa bisogna farla”!
Io non ho mai conosciuto Nino mentre sono diventato amico di Baldini e Guerra, così come della sorella di Nino, Giaele. Tre anni fa mi chiama e mi dice che l’editore di Rimini sta per pubblicare un’altra volta una raccolta di monologhi in italiano (la prima raccolta fu pubblicata da Mondadori, dopo la sua morte). Mi stupisco. Ma come? Nino scriveva in italiano? La sorella mi confida che la sua passione era scrivere in lingua, non in dialetto, ma non lo pubblicava nessuno!
Dopo la sua morte i familiari scoprono che aveva scritto dei monologhi commissionati da Rai Tre perché c’era l’idea di fare una trasmissione radiofonica sui temi d’attualità: una serie di personaggi un po’ strampalati, estremi, una galleria di tipi che riassume la nostra umanità.
Durante la presentazione del libro mi è stato chiesto di fare delle letture ed io quella sera mi sono innamorato di Pedretti, ripromettendomi di trasformare la sua poesia in un lavoro teatrale.

“L’uomo è un animale feroce” ha avuto il merito di far conoscere Pedretti al grande pubblico, lui che era quasi “lo sconosciuto” dei tre poeti di Santarcangelo. La lingua italiana rispetto al dialetto ha una capacità di penetrazione maggiore e quindi è stata una rivelazione per tutti: nessuno se lo aspettava, nessuno lo conosceva un Perdetti così.

Quali sono stati il momento più bello e quello più difficile nell’incontro teatrale con Pedretti?

Sono rimasto colpito dai manoscritti di Pedretti. Ha iniziato a scrivere di gran lena e ha continuato anche quando non aveva più le forze a causa della malattia. Scriveva con un vigore straordinario, i fogli sembravano quasi dei geroglifici.
La forza della sua poesia è che vuole essere “detta”, non vuole restare scritta.
Quando ho iniziato a lavorarci ho pensato alla caratterizzazione dei personaggi ma non volevo che saltasse in primo piano il virtuosismo dell’attore, anzi. Cercavo di fare in modo di restare un esecutore. Il mio impegno è stato quello di fare uscire la parola, tenendo a bada l’attore.
L’impegno maggiore è stato quello di cercare di onorare questa lingua all’apparenza facile e discorsiva ma che è piena di sottigliezze, di svolte improvvise, di cambi di velocità, retromarce, come un buon testo teatrale dovrebbe essere. E’ una scrittura che veramente ama e vuole essere detta.

Cosa si deve aspettare stasera il pubblico del Circolo Everest?

Si devono aspettare dei bozzetti, dei ritratti che rappresentano non personaggi ma stati d’animo che appartengono a tutti.
Lo spettatore si trova davanti a stato d’animo descritti con una maestria sublime: io mi sono messo a disposizione della scrittura. Ci sono dei momenti molto divertenti, a Nino Pedretti piaceva far ridere, raccontare le barzellette. Ma si ride sempre un po’ a denti stretti, é un gusto agrodolce che si prende con piacere. E’ una drammaturgia che mi è nata in mano, io non ho fatto altro che mettere le cose in fila una dopo l’altra.

Sei tra i fondatori del CRT, che tipo di gap si è tentato di colmare con questa esperienza di vita e professionale?

Mi fai andare indietro negli anni, a quando ero ragazzino. Non pensare che io fossi cosi consapevole allora di quello che ti sto dicendo adesso! Ero appena arrivato a Milano e avevo una gran sete di tutto e soprattutto di teatro. Ma il teatro che vedevo in giro non mi piaceva. Pensavo: allora ho sbagliato, di che teatro ho bisogno? Volevo entrare alla Scuola Civica perché volevo fare l’attore ma poi non ho neppure fatto il provino perché quello che facevano non mi piaceva. Mi sembravano cose da parrucconi. Sto parlando del programma della Civica di allora, prima della riforma, ben prima dell’arrivo di Renato Palazzi (direttore dal 1986 al 1995, ndr).
E dal rifiuto di questo teatro ho preso un’altra strada, ho iniziato a studiare filosofia e mi sono messo a cercare incontri: uno di questi è stato con Eugenio Barba, un altro con Grotowski. Sono arrivato al teatro partendo dal corso di filosofia che frequentavo diretto da Sisto Della Palma. Quando Sisto fonda il CRT chiama cinque suoi studenti, tra cui me che ero il più giovane: un trentanovenne chiama dei ventenni per fare il Centro di Ricerca per il Teatro!

Il CRT allora andava incontro ad una emersione che sentivo anche io dentro ma che non sapevo interpretare, e che sarebbe diventato poi l’abbraccio nei confronti di tutto il nuovo teatro che sarebbe venuto: il teatro di ricerca, di sperimentazione di nuovi linguaggi, alternativo, delle nuove generazioni. Un luogo aperto in controtendenza rispetto alla rigidità del teatro borghese dell’epoca. Il CRT si fece interprete di questo desiderio, di questa nuova spinta. Ma io all’epoca ero inconsapevole e bisognoso di dare sfogo al mio desiderio di essere nel teatro.

Cosa dovrebbe succedere al teatro oggi?

Potrei dirti, quello che è successo a me trent’anni fa. Spero che un ventenne oggi trovi una risposta perché io la mia partita l’ho giocata. Tocca a Elea Teatro fare WEBulli, una cosa che io non mi sarei mai sognato di fare. Tocca a loro scuotere le colonne del tempio.

Un ricordo della tua gestione del festival di Sant’Arcangelo?

Quando penso ai miei anni di direzione ho un sentimento di stanchezza e di entusiasmo che si equivalgono. La stanchezza deriva dall’impegno nel creare questa cosa che è sempre miracolosamente in piedi nonostante non sia mai data per certa. E’ stata una lotta quotidiana che mi ha sfinito ma che ho fatto volentieri. Allo stesso tempo mi sono divertito molto a guardare cose che da solo non avrei visto mai, scegliendo il teatro che non avrei mai scelto.
Mi ricordo sempre quando all’uscita dallo spettacolo “My Love for you will never die” di Kinkaleri, una persona che conosco molto bene mi attacca fuori dal teatro dicendomi: “questa cosa non ha né capo né coda, ma che spettacolo è? Io non capisco come abbiate potuto produrlo!”. Mentre alle nostre spalle due ragazze parlavano tra di loro e una diceva all’altra: “E’ la cosa più commovente che abbia mai visto”. Penso spesso a questo episodio. Questo è stato fare il direttore del Festival: non tutto può colpirti allo stesso modo ma il Festival è un luogo di accesso per tutti. Devi pensare che esistono prospettive sul mondo che a te non tornano. Per me è stata una grande avventura, costosa, faticosa; e uno sforzo di apertura pazzesco. Ma non è detto che le cose che faccio adesso non portino i frutti di questa curiosità.

Quali sono i progetti in corso?

Ho onorato Lello Baldini, di cui ricorre il decennale dalla scomparsa, il grande amico di Pedretti. Anche in questo caso mi sono occupato del Baldini in italiano scoprendo “Autotem”, un libro sull’italietta del boom economico che sogna la Cinquecento. Oggi sarebbe sull’Iphone… E’ un libro strepitoso che non si trova più, una galleria di ritratti a tratti simile e a tratti molto diversa da quelle di Pedretti.
Il secondo progetto è un lavoro su un testo del ‘500: il racconto della Passione vista dalla Madonna. E’ scritto in ottonari in italiano da un poeta bravissimo, Leonardo Mello. E’ una follia però è una follia che mi piace molto. Un terzo lavoro è un confronto a due tra Ingmar Bergman e la moglie che potrebbe essere pronto tra un paio d’anni.
Insomma, continuo a lanciarmi in imprese un po’ pazze perché questo mi rinnova la fame, oltre che soddisfarla. Il desiderio non va solo saziato ma devi anche tenerlo vivo.

 

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