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Cosa vuol dire conoscere la propria natura? Ce lo racconta Liv Ferracchiati

Non sappiamo cosa voglia dire incontrare la propria natura, ma qualcuno ce lo racconta.

Liv Ferracchiati, autore, regista e drammaturgo della compagnia The Baby Walk ha iniziato nel 2013 a raccogliere del materiale per dare vita a una Trilogia, la Trilogia sull’Identità, che di lì a poco avrebbe girato fra numerosi e importantissimi palcoscenici. Fra i tanti, anche quello della Biennale Teatro, diretta da Antonio Latella.

Abbiamo voluto saperne di più sui tre capitoli che hanno reso celebre la compagnia, sul lavoro che si nasconde dietro, sull’esperienza alla Biennale e sul prossimo cassetto che sta per aprirsi. Parola a Liv Ferracchiati.

 

Raccontaci qualcosa di te. Chi sei e cosa fai?

Sono regista e drammaturgo teatrale – almeno, fin qui.

 

Com’è nata l’idea di avviare il lavoro sulla Trilogia dell’Identità?

Abbiamo iniziato a raccogliere materiale nel 2013, incontri, letture, chiacchierate. Quello che mi affascina dell’argomento è l’atto di liberazione che una persona transgender fa nel permettersi di ricostruire, riappropriarsi della propria identità che è diversa da quella che gli hanno assegnato. In generale, mi affascinano gli atti di liberazione da alcune convenzioni che sembrano verità assolute e non lo sono.

 

Ci racconti l’esperienza alla Biennale con i primi due capitoli della Trilogia?

Andare alla Biennale è stato un momento di svolta per me e per la mia compagnia The Baby Walk. Antonio Latella ci ha dato la possibilità di confrontarci con un palcoscenico di massimo livello ed è stata sicuramente un’esperienza spinosa ma molto formativa.

È stato stimolante e frustrante, in ogni caso credo che quando si fa teatro, non tanto per farlo, ma perché si sta seguendo un percorso, non è possibile farsi distrarre dal luogo dove ci si trova.

È stato un onore, una circostanza di eventi favorevoli, ma anche il segnale che stavamo lavorando bene.

 

Dopo tante esibizioni, qual è il rapporto fra la Trilogia dell’Identità e il pubblico?

Il pubblico reagisce sempre in maniera diversa. Si potrebbe dire che le donne sono più in ascolto e magari restano anche scenicamente affascinate da un personaggio maschile in un corpo femminile. Gli uomini, a volte, sono sulla difensiva.

Queste però sono generalizzazioni, perché molti uomini hanno mostrato di comprendere profondamente quello che hanno visto in scena e alcune donne ne hanno preso distanza. In linea di massima l’accoglienza è stata positiva. Ti accorgi quando il pubblico è con te. Negli spettacoli della Trilogia l’ho sentito quasi sempre con noi, anche contro, ma, in ogni caso, presente e questo è positivo.

 

I tuoi spettacoli lavorano molto sulla coralità. Qual è il senso del coro?

Sì, perché siamo un gruppo, una compagnia.

In Un eschimese in Amazzonia il senso del coro è diverso: il lavoro sulla coralità è inteso come possibilità di linguaggio. Ci serviva un segno di contrasto tra l’individuo e la società. In realtà poi, i nostri lavori sono scenicamente molto diversi tra loro, credo sia questa la peculiarità che abbiamo dimostrato fin qui, che non ripetiamo uno schema, ma siamo disposti a prenderci il rischio di variarlo.

 

Il terzo capitolo della Trilogia, Un eschimese in Amazzonia, chiude un ciclo. Stai già lavorando a qualcos’altro?

Per ora ci sono diversi progetti che stiamo valutando. Il prossimo potrebbe partire da La morte a Venezia di Thomas Mann.

 

Cosa vedi nella tua arte?

Non credo di poterlo dire io. Posso parlare di quel che vorrei fare: mi piacerebbe essere in grado ogni volta di far accadere qualcosa in scena, di tenere lo spettatore con me durante lo svolgimento dell’azione scenica e, nei casi più fortunati, andare oltre alle cose, mostrare l’inaspettato, sorprendere con una visione diversa.

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